Borgo Musolesi, gente venuta dal Mugello, appennino Tosco Emiliano tra Bologna e Firenze

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Il cibo dei montanari

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Sempre intorno al 1780 un appassionato studioso del nostro Appennino, l'abate Serafino Calindri, visitò la parrocchia di San Benedetto Valle di Sambro e nel suo monumentale Dizionario corografico ecc. d'Italia scrisse fra l'altro: In 51 famiglie sono divise le 311 anime che la compongono (Musolesi 10 famiglie, la Piazza 4, La Serra 5, Poggio 3). Musolesi dunque, con 10 famiglie - che corrispondono ai proprietari di case del Catasto Boncompagni - era il borgo più popoloso della Parrocchia. Accoglieva infatti circa 1/5 della sua popolazione, calcolata in 311 anime (gli adulti: il numero dei bambini era difficoltoso da conteggiare stante l'alta mortalità infantile). Un quinto di 311 dà all'incirca 60, una sessantina erano dunque gli abitanti di Musolesi nella seconda metà del '700. Se si riflette che gran parte dell'anno vi risiedono ora soltanto poche persone (una trentina d'estate) appare con evidenza quanto sia cambiata in due secoli la situazione demografica, economica e sociale del borgo.
I Mugellesi dunque sopravvennero nel Sambro; qualcuno (la Chiesa? I Conti?) avrà loro concesso la terra in cambio di tributi in natura e di servizi (corvè - òver diremmo noi in dialetto, cioè opere). Disboscarono intorno al poggio fino al torrente e su verso Ca' dei Merciai, dove ancora la gente di Musolesi possiede terreni. Innestarono i castagni selvatici sulla sponda sinistra del Rio Maggio, dove guarda a nord, e di là da Sambro, dove i Lenzi possedevano macchia (e Castlér, toponimo che rimanda ad antica proprietà feudale).
Seminavano grano, che rendeva poco: tre / quattro misure per una, a metà del '700. Le cause: il clima rigido, il concime insufficiente per la scarsità del bestiame, gli attrezzi da lavoro inadeguati ad aprire in profondità il terreno disboscato - runcà, dicevamo noi, da noi i toponimi Rungrìn, la Runchètta e i vari Rònc un po' ovunque in montagna. A primavera si seminavano marzatelli, biade di minor pregio ma più idonee all'ambiente: segala, miglio, fava, veccia. Patate e mais (furmentòn, cioè grano grosso) solo al principio dell'800, nonostante fossero importati già nel '500 dall'America appena scoperta, per la diffidenza contadina verso le innovazioni. Ne ricavavano farine per un pane scuro e petroso, che però 'riempiva' a contrastare la fame, e per pappe e polente. Poi zuppe di verdure e di erbe, e minestre di fagioli e di castagne (e còt).
La castagna in particolare diventò alimento quotidiano nella cattiva stagione: lessata (i balòs) e poi essiccata e macinata: pappe (manfét), polenta dolce, frittelle, castagnacci, pane (mistòca). Col tempo qualche po' d'uva per un vinello acerbo e frutta di diversa maturazione, non potendosi conservarla a lungo (al pé osi / le pere osse, ad esempio, per l'inverno). Si allevavano maiali, inizialmente anche bradi, che le ghiande della macchia nutrivano; qualche pecora per il latte e la lana (le donne filavano e lavoravano d'aghi per fare maglie, calzettoni e anche sottane e braghe di sotto); galline per le uova, piccioni che si arrangiavano a cercarsi da mangiare. Ma nella stalla sempre poco bestiame grosso, costoso da acquistare e da mantenere. Da lavoro e per il formaggio, insaporito con l'aggiunta di latte di pecora.
Per la carne ci si arrangiava con la caccia. Un tempo di frodo, soprattutto con lacci e trappole, perchè cacciare era privilegio esclusivo dei nobili. Poi, più vicino a noi, con la stiòpa / lo schioppo a bacchetta - e divenne un piacere: ancora negli anni '50 Musolesi vantava cacciatori appassionati e di vaglia: i Santi e i Lenzi, e altri meno abili, dei quali si potrebbero raccontare imprese drammatiche o comiche.
Già nel '700 tutti trecciavano la paglia del grano - e ròss gentil dal lungo stelo - per farne cappelli, sport, stuoie da vendere alle fiere. E anche si allevava in casa il baco da seta. Le donne covavano in seno le uova fino a che ne uscivano i bachi. Li si nutrivano con foglie di gelso (e si diceva andèr a la fòia, compito di donne e ragazzi) e innanzi che sfarfallassero si rivendevano i bozzoli gialli e maturi al castello di Elle a Rioveggio, o a Bologna al mercato del Pavaglione, che appunto vuol dire farfalla (dal francese papillon). Qualcuno anche allevava api per il miele e la cera - lo zucchero era prodotto d'importazione e dunque oneroso: famoso a Musolesi Primitivo Santi, ultimo rimpianto mielaio del borgo.

 
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